Le avventure di un colonnello dei carabinieri in missione in Bosnia raccontate dal suo autista, che ha ritrovato nei Balcani dopo averlo avuto con sé in Italia.

Uno spaccato del mondo balcanico dopo la guerra, con i problemi delle mine, dei rancori post bellici, della vita nelle forze multinazionali di pace, con la cappa di piombo del ricordo del massacro di Srebrenica. E con la pausa gioiosa della vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio.

Incipit

La sagoma rosa dell’Hotel ci si parò davanti, stagliandosi nel cielo livido della giornata piovosa, in quella serata dei primi di aprile. Gli alberi stavano vestendosi, come di consueto, in questo periodo dell’anno. La pioggia, che ci aveva accompagnati per tutto il corso della giornata, stava dando tregua, ma non si poteva parlare certamente di sereno. Soprattutto erano i colori, quelli di un indefinito crepuscolo, di un passaggio fra il giorno e la notte lentissimo e vago.
Le prime luci dei lampioni iniziavano ad accendersi.
“Hotel Sarajevo. Siamo a casa” esclamò il colonnello.
Diedi la colpa, di primo acchito, alla stanchezza.
“Signor colonnello, che dice? Siamo a Sarajevo, Bosnia. Reggio Emilia è a mille e rotti chilometri”
Il colonnello *** proruppe in una fragorosa risata.
“Alfio, dopo che abbiamo viaggiato tutto il giorno attraverso questo paese, come facciamo ormai da tanti mesi, quando vedo l’hotel Sarajevo mi sento come a casa. Non avverti la stessa impressione?”
Dovevo convenire con lui. Sarajevo, dopo tanti mesi, era diventata un po’ la mia casa, i commilitoni la mia famiglia, accanto a quella vera, che tenevo in Italia, a mia moglie e a mia figlia quattordicenne che mi aspettavano a Reggio. E, come spesso succede, anche qui ci si aggrappava a ciò che ci era meno sconosciuto (Sarajevo, con tutti i suoi simboli e tutti i suoi riferimenti) come facesse ormai parte della nostra vita, in confronto a cittadine, paesi e borgate, sempre diverse e sempre uguali, di un mondo che stavamo passando in rassegna da tanti mesi davvero.
Segnali, indicazioni, avvisi, scritti in questi nomi slavi, spesso in caratteri cirillici, visi segnati dal dolore, visi di guerra, boschi, ruderi di case crivellate di colpi, campi minati. E la sera, se proprio non si doveva rimanere fuori Sarajevo per motivi di missione, ritorno alla base.

Avevo lasciato il colonnello a Reggio, lui era ancora maggiore; in agosto ero partito.
Mi avevano proposto la missione all’estero. Ne avevo parlato in casa. A quarantacinque anni mi dissi: o adesso, o mai più. Raggiunsi Sarajevo, nel reggimento I.P.U., e divenni driver, autista di un team, una pattuglia di cinque uomini.
Poi, il 17 novembre 2005, arriva il colonnello, per assumere il comando del mobile element, il battaglione.
È una giornata convulsa, assurda. Un’ora prima del suo arrivo era morto il maresciallo Antonino Aiello. Incidente stradale. Stava tornando in Italia con una colonna per venire a caricare aiuti umanitari destinati alle martoriate popolazioni bosniache.
Una cappa di piombo, pesantissima, era calata su tutti noi.
La giornata era fredda, gelida; la temperatura prossima allo zero, cosa questa alla quale in Italia non si era abituati, quanto meno alla metà di novembre. Freddo umido, qualche rara nebbia, caldarrostai per le strade, le prime luminarie natalizie appese. Qui no. Qui il gelo.
Benché Aiello non sia caduto sotto il fuoco è durissima ugualmente.
Antonino non c’è più. Il colonnello non arriva sotto i migliori auspici. Ha lasciato la famiglia in clima pre natalizio; e qui? Qui si può parlare di Natale? Per i croati cattolici non c’è problema, il loro Natale coincide con il nostro; per i Serbi, fedeli al calendario giuliano, come tutti gli ortodossi, la festa è rimandata al 6 gennaio; per non parlare della terza componente, quella musulmana, che il Natale non lo celebra affatto.
Che casino!