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Giulio, un nostro contemporaneo, si risveglia nel 2510 dopo essersi fatto ibernare per cinque secoli. Il mondo è chiaramente mutato, con condizioni che ogni essere umano del ventunesimo secolo non esiterebbe a definire desiderabili: la fame e le malattie sono state debellate, ognuno riceve un’istruzione di altissimo livello e così nessuna intelligenza va sprecata, la pace regna sovrana nello sconfinato stato che non ha concreti contatti con gli altri grandi imperi.

 

L’umanità, durante il lungo sonno di Giulio, ha attraversato un secondo medioevo e, grazie al sapiente riformatore Eleuterio, ha saputo in meno di due secoli raggiungere un altissimo livello di progresso.

Questo è stato possibile anche grazie alla rigorosa separazione di denaro e potere e al superamento di un sistema ormai insostenibile.

Ma qualche problema rimane.

Giulio si trova, senza volerlo, all’interno di un intreccio più grande di lui, dove tutti nutrono grandi aspettative nei suoi confronti.

Tre grandi forze, in un mondo apparentemente tranquillo, si scontrano, e la sua persona si trova al centro del conflitto: con colpo di scena finale.

Sono diversi gli interrogativi che il romanzo lascia aperti: il lettore sarà libero di dare a questi una sua personale risposta.

Incipit

Il risveglio fu dolcissimo. Avvertì prima una sorta di tepore (quando a posteriori seppe che il senso di tepore lo avvertì una volta portato da meno cinquanta a meno quindici, prima sorrise, poi ebbe modo di riflettere sulla relatività delle vicende umane) e, contestualmente, incominciarono i primi, debolissimi segni di movimento, accennati, sotto lo strettissimo controllo dei medici. Le operazioni di risveglio erano delicatissime, glielo avevano detto al momento in cui lo avevano addormentato assieme a Clara, lasciando sigillato, in un contenitore isolato da umidità e calore, tutti i protocolli destinati ai medici che cinquecento anni dopo avrebbero compiuto le operazioni di risveglio.

Per essere sincero nessuno era stato in grado di fornirgli alcuna garanzia nemmeno sulla sua stessa sopravvivenza, né, nel caso, sulla qualità della medesima. Ma il desiderio di compiere questo volo senza ritorno nel futuro aveva prevalso su ogni paura.

La lentezza del riscaldamento, così come nei movimenti, era fondamentale per fronteggiare il rischio della fragilità, insita nella semi-vetrificazione conseguente alla temperatura bassissima.
A mano a mano che i gradi aumentavano avvertiva un senso di solletico prima negli arti inferiori, poi in quelli superiori.

Poi fu la volta dell’udito, che riprese un debolissimo contatto con la realtà. Un brusio di fondo, un confuso vociare di persone, interessate probabilmente quanto lui a questo risveglio.
In realtà l’esperienza della curiosità la provò soltanto dopo. E di queste sensazioni mantenne memoria solo come di un vago sentore, qualcosa di simile a quanto proviamo per la nostra primissima infanzia, di cui, malauguratamente, non manteniamo nulla se non pallide ombre, e, accanto ad esse, sensazioni di gioia e serenità, oppure di angoscia e paura.

Questa sensazione di calore rimase codificata come in un sogno di cui portava bagaglio al risveglio, e, lo seppe con certezza, non gli aveva procurato angoscia di alcuna sorta. In questa seconda nascita nessun vagito, solo un lento ma inesorabile risveglio dopo un sonno di cinque secoli.

Passarono diverse ore, e questa volta nella semioscurità e in un rispettoso silenzio, prima che potesse incominciare a distinguere ombre e luci. E lo stato di torpore lo abbandonava vieppiù, per fare posto a una sempre maggiore consapevolezza di quanto stava vivendo.

Davvero erano passati cinquecento anni? Faticava a ricordare. Sembrava questione di pochi attimi prima.

La prefazione di Antonio Carioti

Molti anni fa, quasi trentasei, mi sedetti per la prima volta, emozionato ma abbastanza fiducioso, sui banchi del liceo-ginnasio «Lodovico Ariosto» di Reggio Emilia. La stessa scuola che frequentava Cesare Bellentani. Eravamo anzi nella stessa sezione, la B. Solo che lui era un anno avanti e quei dodici mesi facevano una differenza notevolissima, poiché ne conseguiva che la sua professoressa di Lettere era la temutissima Ate Zanni, una vera e propria istituzione dell’«Ariosto».

Per il biennio ginnasiale di allora (immagino che oggi le cose siano un po’ cambiate, non saprei) l’insegnante di materie letterarie era di fatto una sorta di docente unico, il solo che contasse davvero, poiché impartiva contemporaneamente lezioni di italiano, latino, greco, storia e geografia. E poiché le lingue classiche erano l’asse portante di tutta la formazione, su quelle soprattutto bisognava applicarsi. Con Ate Zanni in cattedra non c’era scampo. Le alternative erano sostanzialmente due: l’esaurimento nervoso o l’acquisizione di una buona conoscenza di base del greco e del latino, trasmessa in un regime di severità così esigente (più tardi lo sperimentò mia sorella, più giovane di tre anni rispetto a me) da sconfinare nel terrore.

Questa premessa serve semplicemente a comprendere perché non mi sono affatto stupito nel constatare che il mondo futuribile descritto da Cesare nel suo libro ha molto a che fare con l’età classica e con l’impero romano. La scuola «nozionistica» di un tempo aveva i suoi difetti, ma non si può certo negare che aiutasse a ben considerare l’importanza del formidabile patrimonio trasmessoci da quei nostri lontani avi. E se poi gli insegnanti erano di un certo tipo, la cultura greca e latina finiva per entrarti quasi nel sangue. Lo si coglie bene in ogni pagina del presente romanzo: nei nomi dei personaggi, nel loro modo di esprimersi e di pensare, nel retroterra filosofico che fa da sfondo all’intera narrazione. Lungi da me l’idea di anticipare troppo circa l’ambientazione e la trama. Sarà il lettore a scoprire passo per passo l’utopia avveniristica immaginata da Bellentani, seguendo i pensieri, gli stupori e i dubbi del protagonista, nel quale si rispecchia in gran parte (mi pare di capire) la personalità dell’autore. Il libro del resto non è soltanto un esercizio d’immaginazione, con alcune trovate davvero intriganti, ma anche il frutto di riflessioni sull’ordine politico ed economico più desiderabile, oltre che su un tema decisivo come la fatale incompiutezza della condizione umana.

Nelle considerazioni di Cesare emerge con chiarezza la visione liberale di cui è cultore sin dagli anni adolescenziali in cui ci incontrammo, divisi allora (ma non troppo) dal fatto che io invece mi riconoscevo in una più impaziente e radicale ispirazione di tipo azionista-repubblicano. Definizioni da Prima Repubblica, che non so quanto possano dire ai lettori più giovani, anche se nel frattempo la cultura politica italiana ha prodotto talmente poco da far francamente rimpiangere il dibattito degli anni in cui persone come noi si accostavano ai problemi della vita pubblica.

Forse oggi (dovremmo approfondire l’argomento una delle prossime volte, sempre troppo rare, che passerò dalla natia Reggio) io e Cesare siamo più vicini di allora, se ben intendo le preoccupazioni sull’intreccio perverso tra politica e affari che emergono da queste pagine, così come il richiamo insistito alla dimensione spirituale dell’esistenza, oltre i dogmi codificati e gli steccati confessionali.

Una società perfetta su questa terra non potremo mai vederla, eppure sarebbe un errore gravissimo abbandonarsi al cinismo, smettere di alimentare la speranza, cessare gli sforzi per migliorare almeno un poco la qualità della convivenza. È in fondo questo il nocciolo della grande cultura classica che abbiamo avuto la fortuna di studiare e di cui il libro di Cesare, pur ambientato in un lontano futuro, porta ben marcata l’impronta dal primo all’ultimo capitolo.

Antonio Carioti

Caposervizio pagina cultura del “Corriere della Sera”

La prima presentazione alla Libreria all’Arco (3 ottobre 2011)

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