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È la storia romanzata di Matilde di Canossa attraverso il racconto di Guido, servo muto che ha vissuto assieme alla contessa gli anni fa il 1060 e il 1115 (data di morte di Matilde), cerniera fra alto e basso medioevo, con al centro la lotta per le investiture.

Guido, un orfano adottato da contadini, assiste al tentativo di stupro della sorella maggiore Angelica da parte di un signorotto del luogo. L’arrivo di Matilde sventa il tentativo di violenza ma Guido rimane muto per lo choc.

Matilde lo affida allora a Cipriano, frate speziale della rocca di Canossa, perché gli doni nuovamente la voce, senza sapere che il frate è in realtà una spia dell’antipapa. Cipriano si rende conto che il bambino non parlerà più, ma intravede la possibilità di trasformarlo a sua volta in spia. Gli fa giurare sul crocifisso di non rivelare nulla, perché è al servizio di Dio, minacciandolo di dannazione eterna, e gli insegna il latino e il germanico e la scrittura, perché quando sarà il momento gli racconti tutto ciò che accade negli incontri di Matilde, sempre a contatto con papi e imperatori.

Il ragazzo impara velocemente. Poi viene addestrato alle armi, perché possa essere guardia del corpo di Matilde (come muto è assai prezioso, non potendo raccontare nulla) finché non viene scoperto durante il tentativo di trasmettere un messaggio all’antipapa Clemente III, Guiberto Giberti di Parma. Perdonato da Matilde avrà anche l’occasione di “peccare” con una bellissima donna, Dominica, sosia di Matilde stessa (probabilmente figlia illegittima di Bonifacio). Il giorno dopo il peccato (che lui teme lo porterà alla dannazione eterna, non potendo come muto confessare) partirà al seguito di Matilde per la Germania, non rivedendo più Dominica che morirà nel frattempo. Al ritorno saprà da Rosalinda, levatrice di Canossa sul letto di morte, che Dominica gli ha lasciato un figlio, Dominicone. Ma muore senza dirgli altro.

Raccontando le guerre con Enrico, in una storia fedele al racconto di Donizone, assisterà alle vicende di quattro papi (Gregorio VII, Vittore III, Urbano II e Pasquale II) e due imperatori (Enrico IV e il figlio Enrico V), gli avvenimenti di un mondo che sta cambiando con la nascita dei liberi comuni e dell’università – i glossatori con Irnerio – in sostituzione della giustizia gestita dai sovrani, le crociate e la nascita di una nuova arte (le cattedrali di Pisa e Modena), la nascita delle repubbliche marinare, i due matrimoni di Matilde (con Goffredo il Gobbo e con Guelfo il pingue).

Scoprirà infine, solo dopo la morte di Matilde, che Donizone altro non è che il figlio avuto da Dominica (Donizone è la contrazione di Dominicone), cantore delle storie di Canossa. Il racconto è chiaramente pieno di riferimenti ai personaggi dell’epoca: il feroce Bonifacio, padre di Matilde da Guido raccontato come pio nonostante le efferate crudeltà, Beatrice, madre e cugina di Agnese (madre di Enrico IV), Berta di Savoia figlia di Umberto Biancamano, i normanni con il loro sovrano in Italia Roberto il Guiscardo e altri ancora, santi, filosofi, nobili e condottieri.

La narrazione è politicamente scorretta, come ho avuto modo di scrivere nella postfazione, poiché è vista con gli occhi di un uomo, Guido, figlio del suo tempo e non solo appartenente alla fazione di Matilde e della Chiesa, ma innamorato, sia pure platonicamente, di Matilde e della Chiesa. La rivalutazione di Enrico si ha nelle parole di Matilde alla morte dell’imperatore, da lui chiamato sempre solo re, non avendo ricevuto l’unzione papale.

Incipit

I ceri ardevano e il fumo, nero, saliva verso il soffitto. Dal lato opposto rispetto all’altare ove riposa   va il corpo della gran contessa, composto, vestito nella sua regale porpora intessuta d’oro e con il melograno unito al rosario santissimo nelle mani, intravidi Angelica, la mia amata sorella. Ella l’aveva servita e riverita come ancella fedele per cinquantotto anni, dal ritorno dalla Alemania, nell’anno del Signore 1057, quando avevano entrambe, coetanee, appena dodici anni. Angelica piangeva senza tregua, così come Donizone. E i miei occhi correvano fra la visione di Angelica e quella del monaco, per poi tornare lì, a quella semplice bara di legno, in attesa di vederla depositare nella cripta del monastero.

Io, Guido, vecchio guerriero ormai canuto, reso savio dagli anni e dagli affanni, restavo immobile e impietrito. Mi trovavo davanti a quella semplice cassa lignea. Lì giacevano i resti mortali della mia signora, prima di essere affidati al sepolcro da lei stessa voluto per sé, nel monastero di San Benedetto in Polirone.

Luglio era torrido, terribilmente afoso. Eravamo nei giorni del Cane, quando la cicala frinisce, i villani spargono il letame sulla terra per poi ararla di nuovo e, resala feconda, spargono poi il seme del grano, per fare rinascere la vita.

Cercavo di rincorrere le immagini della mia vita al suo fianco, per fuggire lontano dal senso di vuoto immane. Questo grande sconforto mi divorava il cuore.
Può piangere un vecchio guerriero? No, non può, non può farlo, continuavo a ripetermi, come per farmi forza.